— Perchè mai? — mi domandò gentilmente. — Vittor Hugo è così dolce, così affabile con tutti! Egli ha il cuore d’una fanciulla e i modi d’un bambino. Tutto quello che v’è di aspro e di terribile nei suoi libri è uscito dalla sua grande immaginazione, non dal suo cuore. Non vedete che gli trapela la dolcezza dal viso? Guardatelo.
Lo guardai. In quel momento appunto era così accigliato e così fosco, che non avrei osato sostenere il suo sguardo.
— È vero — risposi.
Poi mi parlò delle sue abitudini.
— Egli ha le abitudini più semplici di questo mondo — disse. — Non lo avete mai incontrato sull’imperiale dell’omnibus di via Clichy? Di tanto in tanto va a far un giro per Parigi nell’omnibus che passa per la sua strada, in specie quando ha bisogno di scrivere. Ritrovarsi così in mezzo al popolo, rivedere tanti luoghi pieni di memorie per lui, contemplare Parigi di volo, dall’alto, all’aria fresca della mattina, lo ispira. In quel momento colsi a volo una frase di Vittor Hugo che mi rimase impressa. — L’Académie — diceva — qui est pleine de bonté pour moi. — E mi ricordai di quello che avevo inteso dire: che in non so quale occasione, comparendo lui all’Accademia, tutti gli accademici, caso rarissimo, si alzarono in piedi.
E il mio vicino continuò:
— Egli lavora ogni giorno, lavora sempre. Dalla mattina quando si leva fino alle quattro dopo mezzogiorno, è a tavolino. Il suo cervello è sempre in attività. La creazione, per lui, è un bisogno. E anche quando non si sente ispirato, lavora, com’egli dice, pour se faire la main.
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