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      Per quanto si viva in disparte, la grande città ci parla nell’orecchio continuamente, ci accende il viso col suo fiato, ci costringe a poco a poco a pensare e a vivere a modo suo, e ci attacca tutte le sue sensualità. Dopo quindici giorni lo straniero più restio fa già la gobba, come il gatto, sotto la sua mano profumata. Si sentono come i fumi d’un vino traditore, che salgono a grado a grado alla testa; un’irritazione voluttuosa, provocata dalla furia di quella vita, dallo sfolgorio, dagli odori, dalla cucina afrodisiaca, dagli spettacoli eccitanti, dalla forma acuta in cui ogni nuova idea ci ferisce; e non è passato un mese, che quel ritornello eterno di tutte le canzonette, – la bella donnina, il teatro e la cenetta – ci s’è piantato nella testa tirannicamente, e tutti i nostri pensieri gli battono le ali dintorno. Abbiamo già dinanzi un altro ideale di vita, da quello che avevamo arrivando, più facile allo spirito, più difficile alla borsa, verso il quale la nostra coscienza ha già fatto, prima che ce n’accorgiamo, mille piccole transazioni codarde. Certo non bisogna avere in sè cagioni di grandi dolori, perchè è tremendo per chi è in terra sentirsi passare addosso quell’immensa folla che corre ai piaceri. Ma Parigi è per la gioventù, per la salute e per la fortuna, e dà loro quello che nessun’altra città al mondo può dare. Certi stati d’animo, in fatti, brevi, ma deliziosi, sono specialissimi di quella vita: come è passare in carrozza per una delle strade più splendide e più rumorose, verso sera, sotto un bel cielo azzurro lavato di fresco da un temporale di primavera, pensando che ci aspetta dopo la corsa una bella mensa coronata di spalle bianche e tempestata di frizzi, e dopo la mensa, una nuova commedia dell’Au


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Ricordi di Parigi
di Edmondo De Amicis
Treves Milano
1879 pagine 192

   





Parigi