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      Dovetti dunque ricominciare a raccogliere, a notare, e sopratutto a star sempre coll'orecchio teso per tirar profitto, quanto potevo, dai discorsi della gente. E mi persuasi di questa verità: che si può stare dieci anni, trenta, quaranta in una città straniera; ma che se non si fa uno sforzo da principio, se per molto[127] tempo non si continua a studiare, se non si sta sempre, come diceva il Giusti, "con tanto d'occhi aperti," o non s'imparerà mai a parlare la lingua, o si parlerà sempre male. Conobbi a Madrid degl'Italiani vecchi che stavano in Spagna dalla loro prima giovinezza, e che parlavano lo spagnuolo da cani. Già, non è punto, neanco per noi Italiani, una lingua facile, o per dir meglio, presenta la grande difficoltà delle lingue facili: che non è lecito parlarle meschinamente, perchè non è indispensabile parlarle per farsi intendere. L'Italiano che vuol parlare spagnuolo in una conversazione di gente colta, dove tutti lo capirebbero se parlasse francese, bisogna che giustifichi il suo ardimento parlando con scioltezza e con garbo. Ora la lingua spagnuola, appunto perchè molto più affine alla nostra che la francese, è assai più difficile a parlarsi presto, e per così dire, ad orecchio, senza dir degli spropositi; poichè si dice, ad esempio, assai più facilmente propre, mortuaire, délice, senza pericolo che ci scappi detto proprio, mortuario, delizia, di quello che non si dica propio, mortuorio, delicia. Si casca nell'italiano senza accorgersene, si inverte la sintassi ad ogni istante, si ha sempre la propria lingua nell'orecchio e sulle labbra, che ci inciampa, ci confonde, ci tradisce.


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Spagna
di Edmondo De Amicis
Barbera Firenze
1873 pagine 422

   





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