Nè la pronunzia spagnuola ci è men dura della francese; la jota araba, facile a pronunciarsi quand'è sola, è difficilissima quando ne cascan due in una parola, o parecchie in una proposizione; la zeta che si pronuncia come pronunziano i blesi la esse, non si acquista[128] che dopo un esercizio lungo, ed anco paziente, perchè è un suono che sulle prime ci riesce sgradevolissimo, e molti, anche sapendo, non lo voglion far sentire. Ma se c'è una città in Europa dove si possa imparar bene la lingua del paese, quella città è Madrid, e si può dir lo stesso di Toledo, di Valladolid, di Burgos. Il popolo parla come i letterati scrivono; le differenze di pronunzia fra la gente colta e la plebe dei sobborghi sono leggerissime; e lasciando anche da parte quelle quattro città, la lingua spagnuola è incomparabilmente più parlata, più comune, e perciò più determinata, e per conseguenza più efficace nei giornali, sul teatro e nella
letteratura popolare, che la lingua italiana. V'è in Spagna il dialetto valenziano, il catalano, il galliziano, il murciano, e l'antichissima lingua delle provincie basche; ma si parla spagnuolo nelle due Castiglie, nell'Aragona, nell'Estremadura, nell'Andalusia, cioè in cinque grandi provincie. Il frizzo gustato a Saragozza è gustato anche a Siviglia; la frase popolesca che colpisce la platea in un teatro di Salamanca, ottiene lo stesso effetto in un teatro di Granata. Dicono che la lingua spagnuola d'oggigiorno non è più quella del Cervantes, del Quevedo, del Lopez de Vega; che la lingua francese l'ha imbastardita; che Carlo V, se rivivesse, non direbbe più che è la lingua da parlarsi con Dio; e che Sancho Panza non sarebbe più nè capito nè gustato.
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Spagna
di Edmondo De Amicis
Barbera Firenze 1873
pagine 422 |
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