Qui il cicerone mi consigliò di riposare un poco per prepararmi a salire sul campanile; m'appoggiai a un muricciuolo, all'ombra d'un albero, e stetti là fin che mi risentii in forze per fare, come si dice volgarmente, un'altra camiciata. Intanto il mio duca mi celebrava in un linguaggio ampolloso le glorie di Toledo, spingendo l'impudenza dell'amor di patria fino a chiamarla una gran ciudad comercial che poteva rivender Barcellona e Valenza, e una città forte da stancare, a un bisogno, dieci eserciti tedeschi, e millanta batterie di cannoni Krupp. Ad ogni sua spacconata, io rincaravo la dose, e il buon uomo ci si coccolava con un gusto infinito. Quanto c'è da divertirsi, a saperli far cantare! Finalmente, quando l'altero Toledano si sentì gonfio di gloria da non capir più dentro al claustro, mi disse:-Podemos ir,-e s'avviò verso la porta del campanile.
Arrivati a metà altezza, ci fermammo per pigliar fiato. Il cicerone bussò a una porticina, e uscì un cazzabubbolo di sacrestano che aperse un'altra porta e mi fece entrare in un corridoio, nel quale vidi una schiera di giganteschi fantocci bizzarramente vestiti; quattro dei quali (mi disse il cicerone) rappresentavano l'Europa, l'Asia, l'America, l'Affrica, e due altri la Fede e la Religione; ed eran fatte in[271] modo che un uomo potesse nascondervisi dentro e sollevarli da terra. "Se sacan" (si tiran fuori), soggiunse il sacrestano, "en ocasion de las fiestas reales, e si portano in giro per la città;" e per farmi veder in che modo, s'infilò sotto le gonnelle dell'Asia.
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Spagna
di Edmondo De Amicis
Barbera Firenze 1873
pagine 422 |
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