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      Facevano rispetto a lui come gli accademici arcigni che appuntano trionfando le offese alla geografia nell'Ariosto e gli errori di gusto nello Shakespeare. Guardandolo con occhio falso vedevano un Garibaldi falso, un grand'uomo sbagliato, portato sugli altari dalla passione di parte degli astuti e dall'idolatria cieca degl'ingenui. E di costoro non è tutta spenta la razza. Ma furono o saranno severamente puniti dal loro medesimo errore: morirono, moriranno senz'aver amato Garibaldi.
     
      Tutti costoro, e anche molti di quelli che nel campo politico opposto l'ammirarono, avrebbero voluto un Garibaldi prudente e docile, una specie di "generale a disposizione del ministero" che non movesse passo se non per ordine e parlasse il linguaggio ponderato d'un diplomatico; che non fosse altro, insomma, che una bella insegna di rivoluzione, la quale il Governo potesse sventolare a tempo opportuno e ripiegare quando gli paresse. Ma il Garibaldi potato e castigato che essi sognavano era un Garibaldi impossibile. Egli non poteva essere se non quello che fu. Alle sue biasimate ribellioni egli fu mosso da quella stessa virtù che lo spinse a tutti quegli altri atti audaci, fortunati e lodati, coi quali rese i più grandi servigi al proprio e ad altri paesi; e quella virtù era una fede assoluta nella forza d'entusiasmo e di sacrificio del suo popolo, nella invincibilità della causa della giustizia e nel favore della fortuna che fin dalla prima giovinezza gli aveva "porto la chioma". Egli credeva fermamente che allo scoppiar di una guerra contro l'Austria, contro la Francia, anche contro l'Europa intera confederata a comprimere il nostro diritto, sarebbero sorti dalla terra italiana milioni di uomini prodi come lui, risoluti a una resistenza disperata, lieti come lui di dar la vita alla patria.


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Speranze e glorie
Le tre capitali: Torino-Firenze-Roma
di Edmondo De Amicis
F.lli Treves Editore Milano
1911 pagine 248

   





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