Avevano un bel voltarsi Garrone e Derossi a far dei cenni ai compagni che stessero buoni, che era una vergogna. Nessuno ci badava. Non c'era che Stardi che stesse quieto, coi gomiti sul banco e i pugni alle tempie, pensando forse alla sua famosa libreria, e Garoffi, quello del naso a uncino e dei francobolli, che era tutto occupato a far l'elenco dei sottoscrittori a due centesimi per la lotteria d'un calamaio da tasca. Gli altri cicalavano e ridevano, sonavano con punte di pennini piantate nei banchi e si tiravano dei biascicotti di carta con gli elastici delle calze. Il supplente afferrava per un braccio ora l'uno ora l'altro, e li scrollava, e ne mise uno contro il muro: tempo perso. Non sapeva più a che santo votarsi, pregava: - Ma perché fate in codesto modo? volete farmi rimproverare per forza? - Poi batteva il pugno sul tavolino, e gridava con voce di rabbia e di pianto: - Silenzio! Silenzio! Silenzio! - Faceva pena a sentirlo. Ma il rumore cresceva sempre. Franti gli tirò una frecciuola di carta, alcuni facevan la voce del gatto, altri si scappellottavano; era un sottosopra da non descriversi; quando improvvisamente entrò il bidello e disse: - Signor maestro, il Direttore la chiama. - Il maestro s'alzò e uscì in fretta, facendo un atto disperato. Allora il baccano ricominciò più forte. Ma tutt'a un tratto Garrone saltò su col viso stravolto e coi pugni stretti, e gridò con la voce strozzata dall'ira: - Finitela. Siete bestie. Abusate perché è buono. Se vi pestasse le ossa stareste mogi come cani.
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Cuore
di Edmondo De Amicis
pagine 303 |
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