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      Il consiglio collaterale e gli Eletti della città, ingannati od intimoriti dal Toledo, convennero d'obedire al pontefice ed al suo tribunale, prestando il braccio secolare al commissario del Santo Ufficio.
      L'imperatore, commosso dalla rivoluzione germanica, spingeva il Toledo a introdurre la inquisizione spagnuola; ma questi, benchè desideroso di farlo, andava a rilento; di modo che ei non osò far bandire per trombetto la suaccennata conclusione, temendo rumore del popolo, che ripugnava dal Santo Ufficio nelle implacabili ed onnipotenti forme spagnuole, che gli avrebbero concesso di agire indipendente da vescovi e da qualunque altra autorità, di confiscare a sua guisa, di non dare contezza de' testimonii e altre siffatte cose. In verità l'indirizzo assunto dalla corte romana lasciava poco invidiare alla crudeltà e all'ingordigia del fanatismo castigliano. Il governo vicereale le si mostrava devoto, affrettandosi in ogni occasione di compiere al menomo cenno de' cardinali inquisitori, purgando da prima Napoli, e poi concedendo, come concesse, ai commissari e ad ogni sorta di frati di correre le desolate provincie. E le creature della Chiesa si mostrarono più feroci delle belve, che scannano solo per fame, vinsero in crudeltà il cardinal Torquemada, i crociati di san Domenico e le masnade di Simone di Monfort, che vivi ne' pozzi scagliavano eretici e non eretici, a Dio lasciando la cura di separare i buoni dai tristi, gl'innocenti dai rei.
      Il popolo napoletano, in sospetto gravissimo che si volesse ristabilire l'inquisizione, per quell'editto diessi a tumulto, ispirato e condotto da un magnanimo popolano di Sorrento detto Tomaso Aniello, che di un secolo precesse quell'altro, anch'esso di Piazza Mercato.


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L'inquisizione e i calabro-valdesi
di Filippo De Boni
Daelli Milano
1864 pagine 117

   





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