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      Restava mia moglie.
      Mia moglie diceva che i mariti hanno torto a prendersela cogli amanti; questi non otterrebbero, anzi non domanderebbero nulla, se la donna non fosse disposta a concedere, e se non lo facesse capire. Ella aveva ragione. Il ladro fa il suo mestiere, che è quello di rubare. Quando si tratta di un oggetto, ci sono le casse forti. Trattandosi di una persona, bisogna che questa abbia l'intenzione di non lasciarsi prendere. Ora, mia moglie aveva o non aveva questa intenzione. Se l'aveva, i miei discorsi sarebbero stati inutili, anzi dannosi, perchè la avrebbero offesa. Se non l'aveva, glie l'avrebbero fatta venire.
      Così diceva il ragionamento. Poi, io avevo voglia di strapparmi i capelli. Io non volevo che mi rubassero mia moglie. Quell'altro aveva avuto ed aveva molte donne, quante glie ne piacevano; io avevo lei sola. Era la donna mia; mi apparteneva, perchè io le apparteneva. Io non l'avevo rubata; io ero in regola con la mia coscienza, col mondo, con lei; con tutto e con tutti.
      Non avevo il coraggio di dirle: «Tu pensi a tradirmi.» Mi pareva una umiliazione per entrambi. Per risparmiarla a lei, mi umiliavo io. Spiavo le mosse di quell'uomo, gironzavo intorno a casa mia, intercettavo la posta. Un giorno trovai una lettera nascosta dentro un giornale di mode sotto fascia. Mi parve d'impazzire. Presi la lettera e la consegnai a lei senza aprirla. Le chiesi soltanto chi le scrivesse. Ella arrossì, rispose di non conoscere il carattere, lesse la lettera e la stracciò dicendo che era un anonimo impertinente.


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Documenti umani
di Federico De Roberto
Treves Milano
1888 pagine 229