Parlavo poco, avevo la faccia malinconica. "Sempre con questo libro in mano", gridava papà, che era uomo allegro e turbolento e spesso si mescolava coi fanciulli a fare il chiasso.
Tra i miei piccoli amici c'era Michele Lombardi, a cui volevo un gran bene, ed era un nostro vicino figlio d'un contadino. Andavo spesso a visitarlo, e sua mamma Rachele mi faceva trovare la migliazza, e quei cibi grossolani e quelle maniere alla buona mi piacevano assai, e stavo piú volentieri e mi sentiva piú io in mezzo a quella gente tutta alla naturale, che in mezzo ai galantuomini, coi quali dovevo studiare i modi e le parole per non parere un male educato.
A nove anni passò questa vita allegra. La nonna ci condusse a Napoli, me e Giovannino, e ci consegnò a zio Carlo. Lo zio aveva per lei venerazione grande, e la tenne seco due mesi. Nei dí festivi ella ci menava a chiesa, e ci faceva fare le orazioni e sentire la messa. Noi stavamo ginocchioni, con le mani giunte e la testa bassa, pregando accanto a lei. Un dí volsi un po' la mia testolina e vidi vicino a me un lazzarone, che stava tutto disteso per terra e diceva Avemarie. Non so come mi venne in capo di fare lo stesso, parendomi che quello star cosí disteso fosse segno di maggiore umiltà al cospetto di Dio. E mi posi lungo lungo per terra, con le mani in croce. E mia nonna mi guardò e disse: "Che fai?" "Fo come quello", diss'io, indicando il lazzarone. "Ma tu devi pregare Iddio da galantuomo e non da lazzarone", disse ella ridendo. Ed io mi feci tutto rosso, e mi rimisi inginocchio, e non dimenticai piú quel riso soave.
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La Giovinezza
Frammento autobiografico
di Francesco De Sanctis
pagine 249 |
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