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      Un dí verso sera accompagnavo all'uscio un paesano che andava via, e mi fermai un poco a chiacchierare con lui. "Sai, - dicevo; - tu m'hai da fare tanti cari saluti a Genoviefa". "Ca quella è morta", disse lui sbalordito e facendo gli occhi grandi. Io rimasi stupido. Era proprio cosí. Genoviefa era morta, ch'era quasi un anno, e non mi fu detto nulla. Morta nel fiore della età, con tante allegre idee in testa! Facevo allora versi e prose, ma ero ancora piccino, e non avevo un cervello mio, e ricevevo le impressioni da libri. Sazio di lacrime e di singulti, mi venne innanzi Virginia, e scrissi una lettera al babbo sulla morte di Genoviefa, ch'era una epistola tutta intarsiata di frasi e di parole a imprestito; Virginia c'entrava per tre quarti. Il lavoro parve maraviglioso; il babbo andava leggendo l'epistola a tutto il paese; zio mi abbracciò e mi chiamò penna d'oro; i compagni mi facevano festa, e tra le lacrime mi usci il riso negli occhi. Fu quello un gran trionfo per la mia vanità.
      Queste prime apparizioni femminili, questi angeletti che, appena libata la vita, tornano in cielo ridenti e festanti, abbondano nelle immaginazioni umane. Genoviefa fu la mia prima donna, veduta di lontano attraverso i libri, attraverso Virginia. Questa piccola e cara morta mi veniva sempre in mente, quando mi si affacciava qualche nuova fanciulla poetica. Vidi e capii Beatrice attraverso Genoviefa, e fino piú tardi la Graziella di Lamartine.
     
     
      Capitolo quintoL'ABATE FAZZINI
     
      E dopo, che farem noi?
      Questo motto di Cinea fu il tema d'una chiacchierata sul nostro destino, quando stavamo per terminare gli studi letterari.


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La Giovinezza
Frammento autobiografico
di Francesco De Sanctis
pagine 249

   





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