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      Quella mia indifferenza innanzi alle beffe pareva umiltà, ed era superbia. La mia testa vagabonda, nella quale danzava l'avvenire nelle sue forme piú luccicanti, pregiava piú quella sconfinata ambizione di Pirro che quella savia temperanza di Cinea. "Che farem noi?" "Compiremo gli studi, e poi eserciteremo la professione", diceva col tono piú naturale Giovannino. "E faremo quattrini", mormorava Aniello. "Bella conclusione! - rifletteva io, - e la gloria? Dove è la gloria?" Non sapevo cosí per l'appunto cos'era la gloria; ma quella parola rispondeva a tutti i miei sogni, a tutti i miei fantasmi.
      Fu risoluto che il da fare per allora era fortificare gli studi letterarii e cominciare gli studi di filosofia. Zio ci volle mandare presso i Gesuiti, a fine di dare l'ultima mano al nostro greco e al nostro latino. Andammo, e quella scena non mi è uscita piú di memoria. Entrammo in una stanzetta polverosa, con scansie a muro piene di vecchi libri, con una luce quasi fioca che ci veniva dall'andito. A sinistra verso il balcone era un tavolino che chiamano scrivania, con certi ritieni di legno a dritta e a sinistra, e in mezzo era una grossa calamariera di bronzo. Sul seggiolone sedeva uno di quei padri, con volto pallido, con cera malinconica, con occhio dolce, e aveva accanto in piedi un giovane padre, sottile e magro, che aveva qualche malizia nell'occhio, e ci guardava per di sotto. Noi dalla parte opposta stavamo in piedi, e avevamo un tremore non so se di freddo o di paura, forse l'uno l'altro.


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La Giovinezza
Frammento autobiografico
di Francesco De Sanctis
pagine 249

   





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