Nondimeno quel rigoglio di gioventú che mi era attorno mi rapiva seco, volente e nolente, m'infondeva sangue e spirito. La sera s'andava talora a mangiare la pizza in certe stanze al largo della Carità. Una volta s'andò a Porta di Massa in un certo covo puzzolente, dov'era buon vino e dove si bevve assai. E mi ricordo che mi accompagnarono a casa che menavo pugni e predicavo, andando a poggia e a orza come una nave in tempesta. Ma queste cattive abitudini erano rintuzzate da quella pianezza di vita intellettuale, che ci tirava a cose meno ignobili. Ci demmo agli esercizi cavallereschi. Studiammo scherma sotto il Parisi. Imparammo [a] ballare. Cominciammo pure lo studio del pianoforte, e anche oggi in certi momenti con le dita io fo le scale. Mi provai pure nel canto sotto un tal maestro Cinque, ma la voce non usciva e lasciai stare. Ci gittammo allo studio del francese, tentando metterci in capo le regole e i dialoghi di Goudar, che allora era in voga. Zio vedeva tutto e lasciava fare. Erano certo nobili sforzi, ma senza indirizzo e senza seguito, incoerenti e instabili. Si lasciava, si ripigliava, molto affannarsi e poca conclusione. Non perciò io lasciava gli studi filosofici.
Il professore fece una brillante lezione sull'armonia prestabilita di Leibnizio. E presto Leibnizio divenne il mio filosofo, come Annibale era stato il mio capitano. Quella figura placida e meditativa, quel carattere conciliativo, punto dommatico, quell'esposizione chiara, che niente avea di pedantesco, m'innamorò. E come l'una cosa tira l'altra, Leibnizio mi fu occasione a leggere Cartesio, Spinosa, Malebranche, Pascal, libri divorati tutti e poco digeriti.
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La Giovinezza
Frammento autobiografico
di Francesco De Sanctis
pagine 249 |
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