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      Costantino si pose in mezzo e mi sgridò. "Vattene al diavolo col tuo sonetto, - disse. - Tu sei piú piccino, e devi stare con la Gennarina. Mariangiola è di Giovannino". Cosí io scontento e stizzito chinai il capo, e mi avvelenarono la scampagnata.
     
     
      Capitolo SETTIMOL'ABATE GARZIA
     
      L'anno appresso si disputò in famiglia, a quale scuola di Dritto dovevamo andare. La scuola piú riputata era quella di don Niccola Gigli. Ma c'era troppa folla di giovani, e zio preferí mandarci a studiare presso un vecchio frate secolarizzato, e suo conoscente, un tal Garzia. La scuola era in Via Porta Medina in una stanza piccola e sudicia, ed eravamo appena una ventina. Il frate aveva in capo un grosso berretto di pelo, e abito e camicia erano sporchi di tabacco; era tutto macchiato e sordido. Straniero a ogni movimento d'idee moderno, stava lí come un avanzo dimenticato della Scolastica. Il suo scrittore piú recente era Volfio, che aveva disciplinato Leibnizio, diceva lui: ciò ch'io non volevo sentire. Uomo alla mano e sciolto d'ogni forma convenzionale, ci trattava come suoi piccoli amici. Aveva la faccia rubiconda, sulla quale, come su certe botteghe, si poteva leggere: "buon vino e buon cuore". Gli piaceva anche il rosolio; e zio a Natale e a Pasqua gliene mandava, con lo zucchero e il caffè. Lí mi mancava un teatro ove potessi brillare. Non c'era cattedra. Egli stava seduto in mezzo a noi; le sue lezioni erano conversazioni, spesso interrotte da grossi pugni sulla tavola o da grosse prese di tabacco.


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La Giovinezza
Frammento autobiografico
di Francesco De Sanctis
pagine 249

   





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