E io rimasi lí in casa, con tutto il peso della scuola sulle mie spalle curve. La sera andavo sempre alla scuola del Puoti; ma tutta la giornata era spesa a spiegare grammatiche e rettoriche e autori latini e greci, a dettar temi, a correggere errori. Ero pazientissimo, rotto alla fatica; pure quelle cinque classi prostravano in me ogni virtú. Finivo mezzo cretino, inetto a capire un libro, e non sapevo come zio avesse potuto durare a quella pena. Quei cari studi dei miei primi anni mi riuscivano acerbi, non solo per la fatica, ma perché non erano piú d'accordo con la mia coscienza. Quel Soave, quel Falconieri mi facevano pietà. Quelle ariette del Metastasio, quelle ottave del Tasso, quei sonetti, quelle sestine, quelle epigrafi, quelle ceneri coronate, quegli Adami rabuffati, quei maestri di fulmini e quegli Eugenii che fanno paura alla morte, non entravano piú nel mio spirito. Quel dover torturare una frase di Livio o di Tacito che facevano gli scolari per cavarne un senso plausibile, era una tortura al mio spirito, e talora si movevano le mani come per dare uno scappellotto. Quegli scrittori vivi mi parevano divenire pezzi di anatomia, entro i quali quei giovanotti cercavano faticosamente la costruzione. Quel contare sulle dita, quel fare la cantilena, quello stupido recitare a memoria, quel darsi i pizzicotti mentr'io mi sfiatava, m'era intollerabile, mi dava sui nervi.
Alcun conforto prendeva, quando veniva la volta delle classi superiori. Erano miei coetanei, e ci capivamo meglio.
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La Giovinezza
Frammento autobiografico
di Francesco De Sanctis
pagine 249 |
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