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      Quest'ordine m'era fitto in mente, e mi dava il filo; era per me quello ch'è la rima al poeta. L'esercizio del parlare in pubblico avea corretto parecchi difetti della mia pronunzia, e soprattutto quella fretta precipitosa, che mi faceva mangiare le sillabe, ballare le parole in bocca e balbutire. Parlavo adagio, spiccato, e parlando pensavo, tenendo ben saldo il filo del discorso, e scegliendo quei modi di dire che mi parevano non i piú acconci, ma i piú eleganti. Parlai una buona mezz'ora, e il conte mi udiva attentamente, a gran soddisfazione del marchese, che mi voleva bene. Notai, tra parecchi errori di lingua, un onde con l'infinito. Il marchese faceva sí col capo. Quando ebbi finito, il conte mi volle a sé vicino, e si rallegrò meco, e disse ch'io avevo molta disposizione alla critica. Notò che nel parlare e nello scrivere si vuol porre mente piú alla proprietà de' vocaboli che all'eleganza; una osservazione acuta, che piú tardi mi venne alla memoria. Disse pure che quell'onde coll'infinito non gli pareva un peccato mortale, a gran maraviglia o scandalo di tutti noi. Il marchese era affermativo, imperatorio, non pativa contraddizioni. Se alcuno di noi giovani si fosse arrischiato a dir cosa simile, sarebbe andato in tempesta; ma il conte parlava cosí dolce e modesto, ch'egli non disse verbo. "Nelle cose della lingua, - disse, - si vuole andare molto a rilento", e citava in prova Il Torto e il Diritto del padre Bartoli. "Dire con certezza che di questa o quella parola o costrutto non è alcuno esempio negli scrittori, gli è cosa poco facile". Il marchese, che, quando voleva, sapeva essere gentiluomo, usò ogni maniera di cortesia e di ossequio al Leopardi, che parve contento quando andò via.


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La Giovinezza
Frammento autobiografico
di Francesco De Sanctis
pagine 249

   





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