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      Entrai in un camerone oscuro e sudicio, che mi parve una sala principesca, e mi gettai al desco senza badare al tovagliolo e alla forchetta: avrei mangiato con le dita. Pane nero, formaggio piccante, peperoni gialli e una caraffa di vino asciutto furono per me un pranzo da re.
      Mi levai arzillo e mi venne la chiacchiera con quei mulattieri, pastori e contadini, che trincavano, giocavano e bestemmiavano. Presto mi si fecero familiari, e m'invitarono a bere, e cioncai e giocai con loro, e non mi parve scendere dalla mia altezza. La natura non mi aveva dato un'aria signorile e di comando, e con la mia sincerità mi presentavo tal quale, senza apparecchio e senza malizia. "Evviva lo Signorino!" dicevano; e s'erano rabboniti tra loro, e io stringeva quelle grosse mani, come per dare un pegno di fratellanza.
      A quel tempo era il regno dei galantuomini; i contadini, in povertà e in servitú, erano trattati come i loro asini; io non ne sapevo nulla, ed ero soddisfatto e quasi sorpreso dei loro evviva. Rialzato d'animo e di forza, mi messi a caracollare per la discesa, e via via giunsi a un torrente, che si menava dietro grosse pietre e faceva gran fracasso. Il contadino, presa la briglia, andava innanzi, tirati su i calzoni; io mi tiravo su le gambe per non bagnarmi, e perdendo l'equilibrio, caddi rovescioni nell'acqua, e il contadino mi afferrò e si disperava, e io gli dicevo: "Dio non peggio". Era un motto di papà, rimastomi impresso. Non giunsi in paese che a ora tarda, di notte. Entrai in casa, sorridente, con le braccia aperte.


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La Giovinezza
Frammento autobiografico
di Francesco De Sanctis
pagine 249

   





Signorino