Un dí venne Enrico, mentre io stavo a capo chino sopra un Cinonio, che fin d'allora ero miope. "E come si fa? - interruppe lui, - quattrini non ce n'è, e stamane non si mangia". "Il peggio è, - diss'io, - la nostra vergogna. Che dirà Annarella? ci piglierà per due straccioni". "A questo c'è rimedio, - rifletté lui. - Diremo che siamo stati invitati a pranzo. Intanto come si fa?" "Faremo danari", diss'io. E mi posi in giro. Che brutta giornata fu quella! Salivo le scale; ma non osavo avvicinare la mano al campanello, e morivo di vergogna, e tornavo giú. Cosí andando con la faccia dimessa, mi sentii dire: "Oh De Sanctis!" Era Leopoldo Rodinò, lungo, pallido, asciutto, con una bella sottoveste bianca. E "onde vieni? cosa fai?" Cominciarono i soliti parlari. "A proposito, - diss'egli, - io ti debbo ancora pagare le copie che mi desti dei Santi Padri", e mise le mani nel taschino. "Fai il tuo comodo", dicevo io, guardandogli le mani. "Prendi; altrimenti mi dimentico". E io, tra prendere e non prendere, intascai le due piastre, che mi venivano da alcune copie, dategli per uso dei suo studio, delle Vite dei Santi Padri di Domenico Cavalca, libro messo nuovamente a stampa per cura mia e di mio cugino, con una dedica al marchese Puoti. Feci la strada d'un fiato e non capivo in me dalla gioia, figurandomi la faccia di Enrico. E cosí per ischerzo feci prima la faccia brutta, raccontando con una mestizia affettata quell'inutile "scendere e salire per l'altrui scale". Ma quando venni al Rodinò e mostrai le piastre, mi abbraccio.
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La Giovinezza
Frammento autobiografico
di Francesco De Sanctis
pagine 249 |
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