Le ricerche supponevano che si potesse andare al di là della coltura classica; ma per me, come per quegli autori, al di là non c'era che buio. Dell'Oriente a me era noto tutto quello che avevo potuto leggere nelle storie; ma delle lingue, delle tradizioni, delle religioni, della filosofia sapevo poco meno che niente. A me parve dunque tutto quel lavorío intorno alle etimologie e alle origini cosa vana; e con la leggerezza e la presunzione di quella età, spesso me ne prendevo gioco. Quelle derivazioni dal greco o dall'ebraico o da non so dove, fondate sopra un certo scambio di vocali o di consonanti, mi parevano un gioco di bussolotti. Quelle discussioni eterne sull'origine della lingua toscana o italiana mi annoiavano fieramente. Quel pullulare perpetuo di regole e di eccezioni mi stancava, e tutte quelle dissertazioni sottili e cavillose sulle parti del discorso e sulle forme grammaticali mi annuvolavano il cervello. Lascio stare le canzonature dei compagni, che, a vedermi quelle cartapecore in mano, affumicate dal tempo, mi chiamavano un antiquario. E Gabriele Capuano mi diceva: "Basta ora con le anticaglie, ne sai abbastanza". Certo, se io mi fossi dato a quegli studi e li avessi seguiti con tenacità, sarei riuscito un gran decifratore di manoscritti e di papiri, ché ci avevo pazienza e buon occhio. Ma la vanità mi prese. Mi sentivo rodere quando mi chiamavano "il grammatico". Quella collaborazione col Puoti mi aveva impedantito agli occhi di molti. Le lodi che si facevano a Gatti, a Cusani, ad Ajello, che per gli studi filosofici erano in candeliere, mi davano una inquietudine, di cui non avevo coscienza chiara, ma che pur sentivo nelle ossa.
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La Giovinezza
Frammento autobiografico
di Francesco De Sanctis
pagine 249 |
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