Una volta la settimana si faceva il lavoro. Di rado davo un tema; il piú delle volte se lo sceglievano loro. Io tornava a casa carico come un ciuco. Il dí appresso mi levavo di buon mattino, e cominciavo la lettura di tutti quei componimenti. Avevo fatto l'occhio ai diversi caratteri, tanto che anche oggi dalle scritture piú orribili me la soglio cavare. Mettevo in quel lavoro un'infinita pazienza, perché infinita era la mia coscienza: mi sarebbe parso un delitto l'andare in fretta o leggere a salti. Mettevo nel margine le correzioni con le debite osservazioni, e talora tiravo in lungo, perché volevo farmi ben capire. Fatta quella fatica, tornavo da capo a legger tutto, spesso aggiungendo altre postille; poi sceglievo in quella selva di errori quelli che davano occasione ad avvertenze grammaticali o di lingua, e che era bene che tutti sentissero. Questa era la mia occupazione di tutto il dí. Nel dimani andavo cosí armato a scuola, e chiamavo i giovani, uno per uno, e sempre trovavo a dir loro qualcosa, o biasimo o compatimento o lode, consegnando le carte. Poi prendevo i miei appunti, e con l'occhio alla lavagna facevo scrivere le frasi o i periodi da me scelti, dov'erano gli errori, e volevo che i giovani me li trovassero. Di là cavavo materia molto istruttiva di osservazioni e di applicazioni nelle cose della lingua e della grammatica. Quello era l'esercizio piú utile. Posso dire che s'imparava piú a quel modo che con tante regole e con tanto filosofare. Io non lasciava mai in ozio l'intelletto e non dava luogo alle distrazioni: sempre lí, l'occhio alla lavagna, attento, caldo, come se vivessi là entro, e quella serietà, quel calore guadagnava tutti, li tirava a me.
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La Giovinezza
Frammento autobiografico
di Francesco De Sanctis
pagine 249 |
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