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      La mia inclinazione mi tirava tra i ribelli a quel tribunale; stavo piú volentieri col Torto e diritto del padre Bartoli e con Vincenzo Monti. Vedevo che di tutto quasi c'era esempio, e che la lingua non era un corpo morto che si potesse regolare con gli scrittori, come il latino. Nei casi dubbi davo una grandissima importanza all'uso vivo, e mi erano bene accette anche parole nuove non registrate nel vocabolario, ma sonanti nella bocca del massaio o del gastaldo. Né mi faceva orrore qualche parola o frase uscita dal dialetto; anzi mi pareva che i dialetti italici fossero per l'uomo di gusto fonte viva e fresca di buona lingua, specialmente per ciò che riguarda le frasi e le immagini e le figure. Il mio principio era che potesse entrare nella lingua comune quanto nei dialetti potesse esser capito e avesse una certa conformità di genio e di andamento con quella. La lingua comune era per me come l'aristocrazia, la quale sarebbe un corpo morto, ove non avesse la forza di assimilarsi e assorbire elementi di altre classi. "Quanto ai gallicismi, facciamo pur la guerra, - dicevo, - e purghiamo la lingua da questa infezione straniera, ritirandola verso l'antico; ma se l'uso si ostina a conservarne qualcuno, dobbiamo noi cozzare contro l'uso?" Questo linguaggio, in quell'atmosfera impregnata di purismo, sentiva già di ribelle, ed era riferito come uno scandalo al marchese Puoti. Io me ne difendevo vivamente; ma ero già un ribelle senza saperlo, e mi accusava il rossore del volto. Peggio poi quando venivo all'uso della lingua, e a quello che diceasi elocuzione.


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La Giovinezza
Frammento autobiografico
di Francesco De Sanctis
pagine 249

   





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