Questo si vide soprattutto nelle ultime lezioni, che furono sulla lingua del Trecento. Feci una storia dei migliori trecentisti, accompagnata da giudizi brevi e precisi, e notai i pregi e i difetti di quella lingua, navigando cosí destramente tra le esagerazioni degli uni e degli altri, che i novatori non ne furono scontenti, e il marchese mi diede un bravo. Pure io non ci misi malizia; il mio intelletto era fatto cosí, e pareva arte quello ch'era natura.
Mi è saltato innanzi fra i tanti miei scartafacci un sunto di questi discorsi, essendo mio costume di notare per iscritto i concetti piú importanti delle mie lezioni. Quel sunto mi è parso magro e plebeo. Ero solito rifrugare quei concetti in me, e lungamente meditarvi sopra, e poi, parlando, mi rivenivano, ma con piú luce e piú energia. Quel sunto mi è parso il mio cadavere. Chi mi dà l'uomo vivo? Chi mi dà tanta parte di me, consumata in quel tripudio di un cervello esaltato, mosso da una forza allegra? Tutto questo è morto nel mio spirito, e non posso risuscitarlo. E morte sono quelle analisi e quelle critiche, una collaborazione, nella quale giovani e maestro entravano in comunione di spirito, ed in quell'attrito mandavano scintille. A che giovano le memorie? Di noi muore la miglior parte, e non ci è memoria che possa risuscitarla.
Capitolo ventiduesimoREMINISCENZE. AGNESE
Sono già parecchi giorni che i medici mi hanno consentito di prendere un boccon d'aria, non piú che un'oretta. Mi è parso uscir di prigione, ed ho respirato a grandi sorsi, e mi sono sentito allargare il petto e i visceri.
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La Giovinezza
Frammento autobiografico
di Francesco De Sanctis
pagine 249 |
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Trecento
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