C'era nel mezzo una gran tavola coperta di marmo, con sopra libri e carte alla rinfusa: poteva parere una sala di lettura. Quella casa fu di buon augurio. Gli studenti moltiplicavano. E quantunque io concedessi ingresso gratuito a tutti quelli che si dicevano poveri, pure era un bel numero che pagavano, e ne cavavo di bei quattrini. Non si era dato ancora il caso che qualcuno lasciasse la mia scuola. Io dispensai dal pagamento quelli che vi rimanevano piú di un anno, e avvenne che parecchi vi rimasero fino a otto anni, vale a dire tutto il tempo che durò la scuola.
Tra i nuovi arrivati c'era un vecchio, per nome don Francesco che, venuto per curiosità, non se ne partí piú, e pigliava un gran gusto alle lezioni. Talora disputava di rettorica; ma io presi tale ascendente, che non fiatò piú e stava cheto e attentissimo. Il marchese l'ebbe in grande onore, e tutti gli volevano bene. Una sera che la lezione era finita, e molti mi stavano attorno, mi fu presentato un giovane basso e pallido, con due occhi vivacissimi. Mi dissero che si chiamava Angelo Camillo de Meis. Quel nome non m'era nuovo. Sapevo già in confuso dei suoi studi e del suo ingegno. Gli dissi il suo posto essere alla scuola del marchese Puoti. Rispose: "No, no, voglio restare con voi". Aveva un'aria di modestia e di semplicità, e quasi un abbandono nei modi e nel vestire.
Feci un corso sullo stile. Intorno a questa parola trovavo una grande confusione. Alcuni intendevano significare con essa l'elocuzione; altri la rettorica; alcuni vi mescolavano il genio ed il gusto; e chi il bello ed il sublime.
| |
La Giovinezza
Frammento autobiografico
di Francesco De Sanctis
pagine 249 |
|
|
Francesco Angelo Camillo Meis Puoti
|