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      Ma se ne cavò poco frutto. Ciascuno mirava là dove splendevano gli astri maggiori, e avveniva che talora in lavori a grandi pretensioni si notavano scorrezioni grossolane, anche sgrammaticature. Se però il profitto non era uguale, il buono indirizzo giovava a tutti, stimolando le forze dello spirito.
      Quello che volevo nello scrivere, volevo anche nella vita. Dicevo che lo scrittore dee concordare con l'uomo, e perciò anche nell'uomo volevo il disprezzo del comune e del plebeo. Ciò io chiamavo dignità personale. In questa parola compendiavo tutta la moralità, e dicevo che la dignità era la chiave della vita. Contravveniva alla dignità la menzogna, ch'io perseguitava cosí nello scrivere come nell'azione. "La menzogna nello scrivere, - dicevo, - è roba da retori e da pedanti". Ero cosí inflessibile, che dannavo non solo gli ornamenti e i ricami, che chiamavo il belletto e il rossetto dello scrivere; ma anche le frasi convenzionali e usuali di una ostentata benevolenza. Parimenti inflessibile ero nella vita, e dicevo che la menzogna era la negazione della propria personalità, un atto di vigliaccheria. Con lo stesso zelo flagellavo ogni atto basso e volgare, come la cortigianeria, la ciarlataneria, l'intrigo, la violenza, la superbia. Dicevo che l'orgoglio è il sentimento della dignità, ed è nell'uomo e nella donna la guardia della virtú, e chiamavo la superbia una maschera della dignità, una menzogna. "La vita, - dicevo, - è una missione determinata dalle forze che ciascun uomo ha sortito da natura, e che ha il dovere di svolgere secondo i grandi fini dell'umanità: la scienza, la giustizia, l'arte, che con parole del tempo si chiamavano il vero, il buono, il bello.


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La Giovinezza
Frammento autobiografico
di Francesco De Sanctis
pagine 249