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      Cercai gli esempi nella nostra storia, e spiegai cosí la preponderanza, negli ultimi poeti, del verso sciolto, e la libertà nel gioco delle rime e delle strofe.
      Di queste lezioni qualche notizia giungeva al marchese, travisata ed esagerata, come suole avvenire. Gli si diceva ch'io insegnava la noncuranza, anzi il dispregio della regola e delle forme. Egli non mi fece motto, ma vedevo sul suo volto una certa freddezza. Quello che non diceva lui, dicevano i suoi discepoli, dei quali alcuni mi gridavano la croce addosso, motteggiando me e la scuola. Alcuni miei discepoli, esagerando la dottrina del maestro, e pigliando per Vangelo qualche parola uscitami nel calore della lezione, andavano gridando che delle grammatiche e delle rettoriche bisognava fare un bel falò. Questi vari rumori mi giunsero all'orecchio, e ne fui sdegnato. Nuovo del mondo, inesperto delle passioncelle che muovono gli uomini, mi meravigliava che le mie opinioni fossero riferite senza quella misura giusta nella quale io mi tenevo. Non pensai di aprirmene col marchese; la mia natura poco comunicativa, anzi restia, me lo impediva. Credulo nella sincerità degli altri, pensai che la colpa dovesse esser mia, e che forse non m'ero spiegato bene. Feci dunque un'ultima lezione, nella quale mi studiai di dare le piú precise determinazioni alle mie idee. Dissi che lo studio delle cose e l'educazione delle nostre forze intellettuali e morali sono il fondamento dell'arte; ma che l'arte non si può esercitare senza istrumenti, e che le forme sono gli strumenti dell'arte.


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La Giovinezza
Frammento autobiografico
di Francesco De Sanctis
pagine 249

   





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