Non eccettuai la celebrata canzone del Petrarca alla Vergine. A quel tempo correvano opinioni curiose sopra molti nostri lirici. Si citava come modello di genere eroico una canzone di Annibal Caro. Grande era l'ammirazione per le canzoni eroiche del Filicaja, del Chiabrera, del Guidi, del Frugoni. La canzone del Guidi alla Fortuna era un esempio di sublimità. Il Casa e il Costanzo erano lumi del Parnaso. Ma il nostro gusto era divenuto cosí delicato, il nostro giudizio cosí sicuro, che tutte queste divinità si liquefecero, e molti brani ammirati dagli altri destavano in noi il riso, perché ci sentivamo sotto il vuoto e il gonfio. Certe poesie facevano sdegno, come la canzone detta eroica di Annibal Caro, dove l'adulazione si sentiva lontano un miglio. La lirica amorosa non era poi che un sonnolento e artificioso petrarchismo. Ci fermammo dunque all'esame dei due grandi maestri: Dante e Petrarca. Noi eravamo come certi ambiziosi, che sognano re e imperatori, e abitano nei cieli, e sdegnano la bassa terra. Il mediocre e il comune non ci attirava neppure per il piacere di dirne male. Non potendo cansarlo, ci strisciavamo sopra con un "guarda e passa". Miravamo alle stelle di prima grandezza, disposti piú all'ammirazione che al biasimo. Certamente questa inclinazione ci teneva alto l'intelletto e il sentimento, ma pur lasciava una lacuna nello spirito. Non c'è niente di sí mediocre e piccolo, che non abbia il suo valore nella connessione delle cause e degli effetti; non c'è libro cosí volgare, dove non ci sia da imparare, e la storia dei sommi, scompagnati dal corteo dei mediocri, è come concepire il re senza sudditi.
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La Giovinezza
Frammento autobiografico
di Francesco De Sanctis
pagine 249 |
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