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      Gli amici mi vollero ammogliare. Usavo da un pezzo in casa dell'avvocato Tommaso J., uno stecco d'uomo, che passava tutto il giorno in tribunale a far liti, il piú spesso per conto proprio. Passava per uomo ricco, ma viveva con modestia e quasi con trascuratezza. Abitava in una casa che si credeva sua: poche stanze antiche, sdrucite dal tempo e dall'incuria. Noi altri non ci si guardava per il sottile; io distinguevo poco una stanza dall'altra, come poco una vivanda dall'altra: avevo altro pel capo. Figlia di don Tommaso era Caterina, cresciuta cosí alla grossa e alla buona, un po' saputella, con un cervellino sottile e acuto, sullo stampo paterno. Fatta grandina, dicevano che era tutta suo padre, perciò un po' bruttina. Stavo lí come un amico di famiglia, e sentivo le grandi lodi di mamma per la figlia, e cercavo di scappar via quando sopravveniva il babbo, che m'empiva la testa di chiacchiere, parlandomi delle sue possessioni e delle liti, e non mi lasciava piú, capacissimo di prendermi sotto il braccio, e volermi per forza accompagnare sino a casa, per farmi la storia d'un processo e recitarmi la sua orazione. Io sentivo di ciò una fiera noia, ma sapeva contenermi, e lui, immerso nelle sue cause, non se ne accorgeva. Venne terzo fra noi don Raffaele, che m'investiva sempre col suo: "Allegramente!" Poi s'aggiunse il babbo, che veniva a Napoli di frequente, e conosceva don Tommaso, e s'intrometteva tra' discorsi, e, faceto, impaziente, gli rompeva la parola. Cosí trovai un diversivo, e talora mi scaricava di don Tommaso, e lo regalavo a loro.


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La Giovinezza
Frammento autobiografico
di Francesco De Sanctis
pagine 249

   





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