Dopo alcuni giorni mi chiamò a sé, e disse: "Sentite, don Francesco, non so se vi farà piacere o vi spiacerà, ma la verità è una, e come uomo di coscienza ve la debbo dire. Tutte queste possessioni sono come i castelli di Spagna, che talora ci vengono in sogno. Qualcosa c'è in questa carta, ma niente è liquido, niente corre liscio; qui c'è un semenzaio di liti perpetue, che non ne vedranno la fine i figli dei figli, come dice il vostro Tasso. Don Tommaso ci gavazza dentro e ci s'imbrodola, perché nato fra le liti, e ci ha un gusto matto. Ma voi, caro don Francesco, col vostro Tasso e col vostro Dante, cosa vorrete farne di tutta questa roba litigiosa? Finirete che gli avvocati si mangeranno tutto e vorranno il resto. Dunque lasciate stare, non è cosa per voi". Io rimasi come chi si sveglia da un bel sogno e si trova a bocca asciutta. Lui vedendomi cosí sospeso, disse, restituendomi la carta: "Se poi amate quella creatura, l'è un altro affare; ma non c'entro piú io. Però, se il vostro cuore dice di si, meglio pigliarla sola, che in compagnia di tutte queste liti". Mi strinse la mano con un sorriso pieno di bonomia, e mi congedò.
Me ne andai solo e correndo, com'era mio uso, con la testa in tumulto. Don Tommaso e la Caterina m'incalzavano nel cervello, e dall'altro lato c'era la lezione che cercava pure il suo posto. Feci un grande sforzo, ché dovevo parlare del poema epico, e già mi frullavano alcune idee fin dal mattino. Tentai ripigliare le fila, ma il matrimonio, le possessioni, don Tommaso me le guastavano, e per quel dí caddi in preda ai fantasmi, e non conclusi nulla di nulla.
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La Giovinezza
Frammento autobiografico
di Francesco De Sanctis
pagine 249 |
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