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      Il romanticismo era l'ultima rovina degli studi. Egli aveva combattuto quella peste di oltralpe, ch'è il gallicismo, "ma il romanticismo è peggio, perché se quello vizia la lingua, questo rode come un tarlo la mente". Chiamava bolle di sapone, fuochi fatui quello che oggi si direbbe eccentricità e fosforescenza. Ripeteva in caricatura la famosa frase, che "non bisogna tarpar le ali al genio". "E quanti geni, gridava, ci sono oggi piovuti di cielo! Scribacchiatori pullulati come vermi dalle cloache, degna loro stanza". Ciò che piú gli spiaceva ne' romantici, era la dismisura negli affetti, ne' caratteri, nell'intrigo, nella favola. Perciò ne voleva al Verri ed al Guerrazzi, e lodava la semplicità del Manzoni, che da persone di umile condizione, com'erano Renzo e Lucia, aveva saputo cavare potenti effetti. Nella semplicità voleva il rilievo, e perciò motteggiava la Monaca di Monza del Rosini e le Guerre civili del Davila: "Quel loro scrivere mi pare una piscia, con riverenza parlando". Lodava molto il Ranieri, ma notava non so che concetti nella sua prefazione al Leopardi, e non so che situazione violenta nell'Orfana della Nunziata, che avea fatta una grande impressione, non solo come un'opera letteraria, ma ancora come un'azione coraggiosa. Comparivano certe leggende e novelle in pura lingua e in terso stile, ma non avevano grazia presso lui, per la natura dell'argomento; e diceva della Isolina di Roberto Savarese ch'era scritta assai bene, ma che c'era non so che puzzo di romanticismo, qualcosa della Ildegonda e simili piagnistei.


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La Giovinezza
Frammento autobiografico
di Francesco De Sanctis
pagine 249

   





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