L'unità d'azione, di tempo e di luogo era un assioma; l'Iliade era il modello immutabile di tutti i poemi possibili. C'erano regole fisse, dalle quali non era lecito scostarsi. Sotto nome di princípi correvano generalità applicabili a tutt'i casi, come certe ricette. La Divina Commedia non era un poema, l'Orlando furioso neppure: poesie divine sí, ma contro alle regole; e non sapevano raccapezzarsi sotto qual genere andassero allogate. C'era la gran lite degli episodi, e si pretendeva che la Divina Commedia fosse una serie di episodi, e non si leggevano che alcuni di essi, stimati piú belli. Dante era poco meno che un barbaro. Poco si leggevano gli stranieri; Shakespeare passava addirittura per barbaro, e Lope de Vega per un ciarlone. Rousseau e Voltaire erano nomi scomunicati. Ignoti quasi una gran parte degli scrittori dal secolo decimottavo in poi. Poco si leggeva, meno si studiava, molte erano le chiacchiere. La nostra ignoranza degli scrittori stranieri dava proporzioni eccessive al merito degl'italiani. Alfieri era superiore a tutti i tragici, e Goldoni a tutti i comici, e la Basvilliana veniva comparata alla Divina Commedia: non si distingueva il mediocre dall'eccellente.
Queste tendenze erano pure nei miei scolari, e si può comprendere il perché di quella mia introduzione, che oltrepassava nei suoi intenti il poema epico, e abbracciava tutta l'arte. A tale generalità di regole e di modelli io sostituivo la particolarità di un contenuto determinato dalle condizioni esterne e dalle facoltà del poeta.
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La Giovinezza
Frammento autobiografico
di Francesco De Sanctis
pagine 249 |
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