Il problema a noi pare risoluto; ma non parve a Manzoni, che guardava quella geniale produzione con la lente della sua teoria. Faceva un romanzo storico, e gli pareva che oltre all'interesse artistico ci dovesse esser là dentro un interesse storico. Far comprendere bene un'epoca, mostrarla nel suo spirito, nei suoi lineamenti, nelle sue istituzioni, ne' suoi costumi, ne' suoi vizii e nelle sue virtù, questo gli pareva il fine sostanziale d'un romanzo storico. E perché quel fine non è ottenuto, perché qui l'interesse storico è offuscato da un interesse più potente, perché quando vuol metter fuori il capo esso solo, nasce una dissonanza e una freddezza nell'ordito, perché al lettore importa pochissimo quello che a lui importa molto, se i fatti sieno avvenuti o inventati, e quali avvenuti e quali inventati, il poeta critico non vi ravvisa la sua teoria, non vi riconosce i suoi fini, e ripudia la sua creatura, e la giudica un essere ibrido, una sconciatura.
Spettacolo interessante e molto istruttivo è la lotta fra l'ispirazione e la teoria, fra la spontaneità artistica e la riflessione critica. L'artista sa quello che vuol produrre, ma non sa come produce. L'atto della produzione gli sfugge. E spesso gli esce altro da quello che si pensava. Se difetto c'è, il difetto è quasi tutto in quello che pur vi è penetrato del suo pensiero, delle sue teorie preconcette. Così è avvenuto a Manzoni, così a Dante e così a Tasso. La loro genialità li salvò dalle loro teorie.
Manzoni lavora sopra un concetto dell'arte, se non falso del tutto, certo esagerato non meno che quello di Alfieri.
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