Lavora con ostinazione, cerca nuovi mezzi, pur mirando allo stesso fine. E nondimeno la sua produzione gli esce sempre dissimile da quel concetto, il suo fine rimane inappagato, il suo problema rimane insoluto, e lascia la penna malcontento. Dovea conchiudere contro il suo concetto, e non contro la sua produzione. Pare involga nella stessa condanna l'uno e l'altra. Modestia d'artista e superbia di critico. Perché la sua produzione si ribella al problema «come l'ha posto lui», in luogo di fare un ritorno sopra di sé e rettificare il problema, formandosi un concetto più giusto del romanzo storico e più in armonia con la sua ispirazione, si affretta a conchiudere:--Dunque, la mia poetica ha ragione, e la mia poesia ha torto--.
Il torto è tutto della sua poetica. E l'errore sta nel falso concetto che si era formato del reale e dell'ideale.
Il reale per lui è l'esistente e l'avvenuto, il reale della natura e il reale della storia. E per lui il reale dell'arte non è altra cosa, e il reale naturale e storico è quello che i nostri antichi, duce Aristotele, chiamavano l'imitazione della natura. Ma qui comincia la differenza. L'imitazione aristotelica non era riproduzione, era trasformazione. Posto che la natura è una immagine imperfetta dell'idea, l'artista secondo la scuola aristotelica o classica si dee studiare di rendere il reale possibilmente conforme alla sua idea. La natura innanzi all'arte è come materia greggia, destinata ad essere lavorata e trasformata dall'artista, sì che risponda a quel tipo di perfezione, che è nella nostra mente, e non si trova in nessuna parte.
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Aristotele
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