Perciò l'istrumento proprio dell'arte non è l'osservazione, ma l'immaginazione, la cui materia sono non le cose reali, ma le ombre e le parvenze di quelle. La poesia, come dice Dante, è ombrifero prefazio del vero, una bella apparenza del vero, una verità nascosta sotto il velo della favola, è, come dice Tasso, il vero condito in molli versi.
Qui il concetto di Aristotele è oltrepassato e peggiorato. Non è la cosa trasformata o idealizzata, avvicinata al suo tipo, al suo ideale, ma è una immagine del bene e del vero, di modo che il vero e il bene sono la sostanza, e le cose sono semplici loro istrumenti maneggiati dall'immaginazione a rappresentare o manifestare quelli, non sono esistenze, individui perfetti, ma simboli, veli, manifestazioni. Conseguenza di questa dottrina ultra-aristotelica è l'individuo non per sé, ma per l'idea, l'individuo manifestazione, rappresentante di questa o quell'idea: il tale individuo rappresenta il tiranno, il tale altro il patriotta. Platonismo e Cristianesimo conferirono del pari a questa tendenza ascetica ed allegorica. Si formò nella mente un mondo tipico, l'altro mondo di Dante, un mondo della verità e della giustizia, in cui fu collocato l'ideale, e si sperdettero sempre più i vestigii del mondo vivente, della natura e della storia. Materia dell'arte non fu più l'esistente e l'avvenuto, ma l'invenzione, un mondo fabbricato dall'immaginazione, dove le più strane combinazioni servivano a rappresentare le idee, o semplicemente a generare il maraviglioso.
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