Ma dall'intenzione al fatto è un gran tratto. E il critico non può tener conto delle intenzioni, se non in quello solo che è penetrato nel libro ed è divenuto un fatto. Sicché il metodo più sicuro e concludente è di guardare il libro in sé, e non nelle intenzioni dell'Autore.
Nondimeno uno studio sulle intenzioni dell'Autore non è mai superfluo; non è ancora la critica, ma è già una «propedeutica». Cogliere l'Autore nel momento della concezione, scrutare i suoi fini, le sue idee, i suoi preconcetti, le sue preoccupazioni, è una conoscenza preziosa della natura e della intensità di quelle forze produttive, dalle quali esce il lavoro. Poi, volere o non volere, sempre alcun che di quel mondo intenzionale penetra nel libro, e ci giace al di sotto, come motivo o come ostacolo. Né qui è necessario di fantasticare, perché Manzoni è là con le sue «confessioni». Noi sappiamo qual concetto erasi formato del romanzo storico, qual fine voleva raggiungere, ed abbiamo la trista conclusione che quel fine a parer suo non è stato raggiunto, perché assurdo e contraddittorio in se stesso. Stabilite le intenzioni dell'Autore, la critica ha il dritto di discuterle, e mostrarle, quando sia il caso, irragionevoli; e se il libro è conforme a quelle intenzioni, tanto peggio pel libro. Questo ho voluto io fare, ragionando in un altro mio scritto della poetica di Manzoni. A' posteri fa spesso compassione il vedere da quali storte preoccupazioni sia stato assediato un grand'uomo, nel porre mano al suo edificio.
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