Quando diciamo: «Ermengarda», siate certi che non intendiamo Ermengarda della prima e della seconda scena, intendiamo parlare del Coro; ecco quello che è rimasto vivo della tragedia, il canto che le suore innalzano a Dio intorno alla morente. In esso non ci è il carattere virile o femminile dell'ideale, ma il germe della nuova lirica. Le suore, aliene dal mondo, estranee al passato di Ermengarda, piangono, la compatiscono, la consolano: esse non sanno, non debbono sapere, i dolori terreni di un'anima non consacrata a Dio. Quando innalzano la voce intorno ad Ermengarda, per loro quello è lo spettacolo ordinario della terra, abituate come sono a guardare all'altra vita. Avete la tragedia umana considerata in modo filosofico, perché la religione è destinata ad essere la consolazione, la filosofia della vita. L'anima di Ermengarda, guardata da un punto di vista celeste, fa loro sentire la religione artisticamente: non ci è niente di appassionato e di turbolento, ciò che è proprio della lirica terrena.
Capite ora perché, guardando le cose tranquillamente, le pure vergini del Signore possono riepilogare la vita di Ermengarda quasi con caratteri poetici: in quelle memorie esse vedono la forma esteriore; e capite perché sin presso al letto di morte possono ricorrere a paragoni per esprimere misticamente amori terreni, che non son nate a comprendere direttamente. Con un magnifico paragone infatti nel Coro è rappresentata Ermengarda, rivolta alle immagini del passato, poi tutta del cielo, poi di nuovo volta alla vita terrena: esse che non intendono la lotta che è in lei, ricorrono a delle immagini e cercano spiegarsela colla similitudine di fenomeni naturali:
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