Giunto qui gli esce un lamento: «Ahi! sventura!», e si rivolge alla battaglia, come un uomo che dopo aver veduto una cosa orribile, la contempla a parte a parte, quasi volesse saziarsi di guardarla. La battaglia continua, si vedono alcuni darsi alle gambe, altri perseguitarli, la fuga, la vittoria, infine un corriere al quale tutti vanno incontro. Questo è pieno movimento drammatico, che giunge sino a un punto ove l'azione cessa e scoppia l'indignazione, quando una folla stupida accalcandosi intorno al corriere domanda:
Che gioconda novella recò?
Scoppia l'indignazione sotto una delle più belle forme drammatiche. Il poeta dimentica di essere spettatore, si scambia con quei personaggi, diventa lui l'araldo; ma quell'araldo è l'uomo moderno il quale chiede:
Donde ei venga, infelici, il sapete,
E sperate che gioia favelli?
I fratelli hanno ucciso i fratelli:
Quest'orrenda novella vi do!
Ricordo che ogni volta che si dicevano questi versi quando l'Italia non avea ancora raggiunta l'unità nazionale, quando a Napoli erano ancora Borboni, un fremito scorreva nella sala, tanto è irresistibile l'effetto di questa strofa, così ben preparato.
Qui se ancora continuasse il Coro con queste impressioni, si esaurirebbe; andando più oltre, si cadrebbe nel seicentismo, nel gonfio, nell'esagerato.
Ma l'azione ripiglia, vengono il Te Deum, le feste, il tripudio, e l'autore diviene pensoso, e gli si presentano innanzi le conseguenze della battaglia fratricida, la calata degli stranieri da cui l'Italia fu oppressa.
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