Anche quando muore e dice:
- Parlatemi di Dio: sento ch'Ei giunge - .
voi sentite sotto queste parole l'amore terreno; mentre invoca Dio, pensa a Carlo. Tutto ciò sviluppato darebbe una intera tragedia. Ma questo personaggio in mezzo a fatti così colossali, quando un popolo scomparisce e un altro si mette in suo luogo, quando sono definitivamente decisi i destini del papato e dell'Italia, non può che fare appena una comparsa, non può avere movimento drammatico, rimane lirico.
D'altra parte c'è l'ideale di un popolo sul cui capo scende il coperchio della sepoltura, il popolo latino. Esso non esiste nelle cronache di quei tempi: si parla di Longobardi, di Franchi; di Latini non si parla punto. Perciò gli storici aveano conchiuso che i Longobardi avessero finito coll'assimilarsi i Latini e che conquistatori e conquistati avessero formato una sola famiglia.
Nella tragedia c'è un solo tratto in cui si accenna a quel popolo, è una sola parola. Quando il diacono Martino giunge innanzi a Carlo, questi gli dice: - Che vuoi, latino? - . E non c'è altro. Manzoni crede che il popolo latino c'era, che serbava la sua autonomia, quantunque calpestato ed oppresso dai Longobardi. Scruta, ma non trova traccia di quel «vulgo disperso che nome non ha».
Quando i Longobardi stanno per scomparire dalla scena, a un tratto comparisce questo popolo latino, che ha appena una confusa memoria di quello che è stato, ricorda se stesso ne' portici muscosi de' suoi antenati, cammina per quei fori cadenti che attestano le glorie dei suoi maggiori.
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