E pigliando il pennello ne uscirà una forma astratta, nuda, magra, priva delle condizioni della vita. Voi vedete che parlo di Alfieri: l'ideale di lui, quando per la prima volta gli si presenta, è la libertà dopo tre secoli di dispotismo, sono le idee che più tardi faranno la Rivoluzione francese. Privo di esperienza, quell'Italia futura trova in lui molto entusiasmo, poca realtà e forma concreta. I suoi personaggi, malvagi e buoni, con che passione parlano tutti! e quelle forme sono scarne, vuote, senza le condizioni che rendono storico un personaggio.
Diamo un altro passo. Quell'ideale è calato nella storia, se n'è fatta l'applicazione, al primo urto con la realtà sorge contro di esso l'ignoranza delle plebi, l'ambizione dei cattivi, l'egoismo delle classi: cade nel fango e nel sangue. Si presenta a un altro poeta, e con qual forma! È il disinganno. Nel primo l'illusione, l'ideale fuori della vita; nel secondo il disinganno: ma questo disinganno è ancora la vita in cui è sceso l'ideale? No. Perché? che cosa è desso? - Io amava quell'ideale, credeva di averlo raggiunto e lo vedo ora profanato; e invece di domandarmi il perché di questo fatto, mi ribello contro la realtà che l'ha contaminato, la impreco, la maledico - ; ecco il disinganno, qual è rappresentato nelle lettere di Iacopo Ortis. L'ideale è illimitata illusione in Alfieri, illimitata disperazione in Foscolo.
Ed ora, qual'è la posizione di Manzoni come artista, dirimpetto al suo mondo ideale? È egli un fanatico, educato in un convento, che ne esca come un monsignor Dupanloup per maledire alla terra?
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