Analizziamo ora psicologicamente questo fatto.
Questo fatto è solamente «coscienza della propria debolezza»?
No, esso è qualche cosa di più.
L'uomo infatti può essere cosciente della debolezza propria, ma, se ha un po' di polso, misura il pericolo, lo affronta, lo gira, e quando sente ch'egli è inferiore ad esso, lo subisce con dignità senza abbassarsi. L'uomo coraggioso non è colui che vuole scalare il Vesuvio e prenderlo d'assalto, ma è colui che, come abbiamo detto, sa affrontare a tempo il pericolo, e sentendosi inferiore sa dignitosamente subirlo.
Ma in don Abbondio c'è quella qualche cosa di più, c'è il «sentimento della paura».
E qual'è, o signori, la forma estetica della paura?
Nell'uomo, c'è una «forza di reazione» contro le impressioni esterne; forza di reazione che risiede nell'uomo «forte», il quale in mezzo alle impressioni violente sa far valere la volontà propria e raggiungere il suo fine. Questo è ciò che si chiama «essere uomo»; egli dice: - Questo voglio - , e si afferma.
Quando poi l'uomo è «pauroso», quella forza di reazione è debolissima in lui: di rincontro alle impressioni esterne la sua volontà scomparisce, ed egli rimane come debole canna in preda alla violenza di esse. Che anzi giungendo queste all'immaginazione, una specie di musa della paura agita la fantasia, la quale si raffigura cose inesistenti; si mescolano così pericoli reali con pericoli immaginarii, ed allora le altre facoltà tacciono, l'intelligenza si oscura, la volontà scompare, e rimane l'uomo con la sola immaginazione di fronte alla violenza.
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Vesuvio Abbondio
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