Il comico di don Abbondio ha fatto pure la sua strada: ed al primo sorgere è stato comico grossolano, che a poco a poco s'ingrandisce e riceve in sé l'antagonismo, le scissure; e procedendo oltre in quella scala, si trova il comico che consuma se stesso e passa nel tragico.
Pigliate ad esempio una intelligenza che abbia una volontà indecisa; ebbene quando quella si trova in azione, voi avete il comico che deriva dall'antagonismo tra l'intelligenza e la volontà: ed è questo un comico che è passato nella più profonda tragedia umana, quest'antagonismo tra la volontà e l'intelligenza che ha fatto l'Amleto dello Shakespeare ed altrettali.
Don Abbondio dunque sta all'infimo gradino della gradazione storica come concezione; esso è concezione iniziale e però è semplice, è spontanea, è sincera come tutte le forme primitive. È semplice, perché in lui non v'ha antagonismo; ci trovate sola dominante la paura, che è la chiave che spiega tutte le situazioni di quel personaggio. È spontaneo, tutto apparisce sul suo volto con tale subitaneità, ch'egli non ha la forza di assoggettare la sua paura, anche quando il calcolo e la sua intelligenza vogliono il contrario, come quando voleva ingannare Renzo, e riuscì al contrario. Vi cito un piccolo tratto per farvi vedere come Manzoni lo segue nella sua spontaneità. Quando il Borromeo dice a don Abbondio di andare sul castello dell'Innominato insieme a costui, e si accorge della paura del povero curato e vuol fargli intendere che l'Innominato non era più quello di prima, don Abbondio sta mogio mogio e non si persuade, e l'autore sorprende nella sua faccia la manifestazione di due sentimenti che si suscitarono in lui e ch'egli non può celare: appena sentì il comando del cardinale, la noja, l'affanno, e l'amaritudine che provava per tale proposta gli salirono al volto, dove si dipingeva contemporaneamente la paura di mostrar la sua paura al Borromeo.
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