E Manzoni dovette avere dinanzi a sé un'immagine. Noi troviamo che questo prete tutto pace alla solita ora fa la solita passeggiata e legge il solito uffizio; ed a cui l'uffizio non diceva nulla per l'abitudine, nulla la natura ridente che lo circonda, perché troppo calmo, e se la piglia invece coi ciottoli che facevano inciampo al sentiere e li butta con un piede verso il muro. Questo non è ancora il don Abbondio «individuo»; è il tipo, il carattere di don Abbondio, non del poeta: carattere poltrone, pusillanime, passivo. È chiaro che se deve aver vita, questa non può uscire se non se da un'azione contraria alla natura di lui, che, venuta dal di fuori, lo spinge a muoversi. E questa azione lo fa agire per forza, poiché don Abbondio non ha la libertà della scelta, egli è tutto superficie; ciò che è al di fuori è anche al di dentro.
Posti così i caratteri, che forma poetica può avere? Non ci è in lui ciò che si usa chiamare lo «sdoppiamento», cioè la forza dell'ironico; in lui non c'è nulla di ironico, come allora che un poltrone voglia fare il bravo; in don Abbondio c'è un sol momento: sincero e buono nel fondo, egli non è sarcastico come il depravato Tartufo: eccita il riso, non il disprezzo. Don Abbondio, dominato dalla natura, non ha «umore». Una forma bassa della commedia e tanto cara agli Italiani è la «caricatura», che rivela il tipo specifico, e questa è l'arma di cui si serve mirabilmente il Manzoni per dar rilievo a ciò che in don Abbondio esiste: la pusillanimità. Vi colgo don Abbondio in un dopo pranzo, mentre gli uomini di questa pasta fanno il chilo, e leggendo s'intoppa in Carneade, dimandandosi chi era costui.
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