- Cioè... cioè. Loro signori son uomini di mondo, e sanno benissimo come vadano queste faccende. Il povero curato non c'entra: fanno i loro piastricci fra loro, e poi... poi vengono da noi come s'andrebbe ad un banco a riscuotere; e noi... noi siamo i servitori del comune - .
La paura è poco generosa e don Abbondio, dopo averli chiamati pasticcioni, rovescia la broda su Renzo e Lucia. Questo dialogo è pieno di movimenti drammatici. Don Abbondio vuol parlare e riman lì, poi cerca frasi per pigliar tempo, e stretto, cerca di non compromettersi; infine si dispone ad obbedire. È un altro don Abbondio. Volete un'altra forma? Partiti i bravi, avviene una reazione: è passata la paura, è finita la pressione, e don Abbondio è scontento di sé e sente il bisogno dello sfogo; ed il singolare è che in luogo di pigliarsela colla sua dappocaggine, se la piglia con don Rodrigo, co' bravi, cogli sposi. E il motivo comico qual è? I bravi se la presero con lui con quel tono perché pauroso, ma egli non lo concepisce. Nel suo calore stizzoso dice: - «Che c'entro io? Son io che voglio maritarmi?» - . Ecco la caricatura del pensiero. Poi viene il dialogo con Perpetua, in cui v'è curiosità di sapere da una parte e una gran voglia di dire dall'altra. Brontolando va a letto e piglia la risoluzione dei pusillanimi, cioè di guadagnar tempo, e chi ne va di sotto è Renzo.
È nelle varie gradazioni che l'arte lo coglie. Buono in fondo nell'animo, conviene che ingannar Renzo non era da cristiano, ed ecco la caricatura di nuovo:
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