La soluzione è prodotta da un dabbene confessore, il quale assicura che Rizzardo è morto da buon cristiano, pentito, chiamando lei, e che amarlo non è peccato.
La novella ha il suo sviluppo in queste parole:
Piomberò dal Signore maledettaNell'inferno fra l'anime perdute;
Se eternamente son teco abbracciata,
Non mi spaventa l'essere dannata.
Lí si disegna una situazione, la collisione si annunzia come incapace di soluzione. Ma, all'ultimo tutto si rischiara, la donna muore cristianamente. Con colori nella scena che ricordano l'Ermengarda del Manzoni, riceve il perdono dal padre, perdona alle suore e alla badessa, Idelbene le promette di non far mancare mai fiori alla sua tomba, la tragedia finisce con dolce malinconia.
Ecco in breve l'analisi dell'Ildegonda. Fino alla terza parte non abbiamo che semplici antecedenti. Quando giunge ad Ildegonda la notizia dell'eresia di Rizzardo, sorge la collisione. Se da questa uscisse un dramma, la novella sarebbe piena d'interesse; ma ne escono visioni, lamenti, svenimenti, delirii, fantasime, convulsioni, e si finisce nel luogo comune della morte cristiana.
Il Grossi voleva fare un dramma ed ha prodotto un pezzo lirico, descrizioni di delirii, e visioni, interrotte da monologhi appena rinfrescati da brevi dialoghi; per cui si produce monotonia e stanchezza. Non è una novella, è una romanza; ma la romanza dev'essere breve: in una tela sí ampia la situazione è sempre la stessa in mezzo a brevi variazioni.
Che cosa produce monotonia e stanchezza?
Lo stato normale d'Ildegonda è il delirio, dalla prima all'ultima pagina.
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