Ma poi che il mio destino iniquo e duroVuoi ch'io vi lasci, e non so in man di cui,
Per questa bocca e per questi occhi giuro,
Per queste chiome onde allacciato fui,
Che disperato nel profondo oscuroVo dello 'nferno, ove il pensar di vui,
Ch'abbia cosí lasciata, assai piú riaSará d'ogni altra pena che vi sia.
Sentite qui veramente l'uomo che va all'inferno disperato; ma insieme quante idee delicate! Quel morire in seno dell'amata, quel lieto e contento sarei morto se v'avessi lasciata in parte sicura, la chioma, gli occhi della donna: un sentimento voluttuoso penetra tutta l'ottava, il quale dá grande varietá al pensiero principale. Zerbino dice:
... disperato nel profondo oscuroVo dello 'nferno...
Ed Ildegonda invece:
Se eternamente son teco abbracciata,
Non mi spaventa l'essere dannata.
È una sola idea ch'esce fuori cruda e grezza, senza alcuna gradazione, senza ombra di sentimento piú delicato. Quel fantastico intruso per reminiscenza romantica, questa crudezza di sentimenti, le lunghe descrizioni e i monologhi appena interrotti da brevi dialoghi, fanno si che l'Ildegonda riesca monotona e stanchi chi legge.
Pure è questo il capolavoro di Tommaso1 Grossi, parlando relativamente; meglio martellato degli altri suoi scritti poetici, ottave non di rado felici, calcate su quelle dell'Ariosto, concezione originale: il solo fiore romantico che abbia l'Italia, mentre di tanti racconti fantastici è ricca specialmente la Germania.
Il Grossi sentí quasi che quel fantastico, stando a disagio nella poesia italiana, riesce grottesco e ridicolo invece di produrre terrore.
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