Del semplice e del vero imitatrici.
Povero, inetto io 'l fin dicea di quelleArti gentili, che fermar le sedi
Sulle rive del Tevere e dell'Arno.
A che ne le ammirate opre de' nostriQuella pace diffusa e quel riposo;
Quando una fiera legge, a chi ben dentroMira, travaglia col dolor le cose
Arcanamente? Ov'è una vera gioia,
Ove una intensa voluttá, che, quandoDuri piú d'un fuggevole momento,
Non s'estingua nel tedio o ne la morte?
Quel semplice, quel riposo accennano alla forma classica, e quel tedio all'opinione dei romantici che la forma classica fosse contro natura, noiosa perché sempre ripetuta.
Prosegue ancora l'autore a sviluppare la teoria nuova. Si vede chiaro sotto Claudio Vanini il nostro Baldacchini che prima spiega il modo come i romantici concepivano l'arte, e poi il modo suo: non movimenti drammatici, la forma descrittiva e didascalica rende pesante questo lavoro che per sé non desta interesse.
Intanto, mentre in Napoli si preparava una scuola, che dirò d'imitazione romantica, c'era in Calabria una schiera di bravi giovani che sentivano tutte quelle impressioni, ma in modo vergine e piú acconcio alle loro immaginazioni, con piú naturalezza. Benché venuto di fuori, chiameremo questo Romanticismo naturale, opposto a quello convenzionale di Napoli. Citerò il Campagna che, quando era ancor giovane, sotto le impressioni dell'Ildegonda scrisse l'Abate Gioacchino, Biagio Miraglia che scrisse il Brigante, il Padula che compose parecchie novelle, Pietro Giannone, morto testé in volontario esilio, che allora scriveva la Lauretta; il Ruffa, il Baffi che, ad imitazione dell'Angiola Maria, scrisse l'Arrigo e lo dedicò appunto al Carcano; e quello che aveva piú vitalitá ed immaginazione di tutti, Domenico Mauro, ora in istato di salute quasi disperato.
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