Non aveva mai creduto che compiere il proprio dovere fosse scala a ricompense. Questa ch'è la meno facile delle virtú, è la piú dimenticata: ora che, per dirla alla francese, si posa, si fa schiamazzo per dar negli occhi, questa virtú che appartiene al grado piú elevato della natura umana, è poco curata. Ma quando l'Italia avrá ricuperato il pieno possesso del suo senso morale, e si avvezzerá a guardare dietro lo scrittore l'uomo, a guardare gli uomini non da quello che scrivono ma da quello che fanno; allora, se vi sará un libro d'oro dei grandi caratteri e dei grandi patrioti, non mancherá una pagina a queste virtú di Domenico Mauro.
Il suo Errico fu l'ultimo fiore della letteratura calabrese. Comparve nel 46 l'Anselmo e Sofia dell'Arcuri, e poi quel fiore appassí. E voi comprendete perché. Vennero i Bandiera, poi il 48 e la lunga notte fino al 60, e le Calabrie principalmente furono prese di mira dalla reazione borbonica, perché lá si era iniziato il movimento liberale.
L'Errico fu l'ultimo di tutta una serie di poemetti e novelle, corrispondenti alla letteratura che si sviluppava allora in Lombardia. Il primo fu l'Abate Gioacchino di Giuseppe Campagna; ed al mezzo della serie un tentativo fra il classico e il romantico che non può essere dimenticato, il Valentino di Vincenzo Padula.
Se guardiamo le apparenze, l'Errico e l'Abate Gioacchino sono ispirati dagli stessi luoghi, vi sono le stesse situazioni, i costumi medesimi; sono due poesie calabresi, nate lí sul vero e sul vivo.
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