E si vede comparire da lontano un uomo col capo coronato di spine, coperto di cilizio, che grida: perdono! perdono! Quell'uomo è Ugone.
Qui è una situazione che Domenico Mauro nel suo poemetto ha sviluppata riccamente: due nemici in un momento si sentono legati dallo stesso amore e dallo stesso dolore; innanzi alla memoria della vittima si riconciliano. Tutto ciò è appena accennato dal Campagna. Ugone confessa avere ucciso il marito della donna per amore di lei; ma ormai ogni affetto terreno è consumato nel suo cuore, va in Palestina per far penitenza, ed ella torna alla sua casa, e, dice l'autore,
Ivi tanto penò quant'ella visse.
Questa donna, che incita i figliuoli ad uccidere il figlio dell'offensore, costituisce una situazione scabrosa assai, come l'altra dell'Errico. Per me, preferisco quella che forse ha ispirato l'una e l'altra, creata da Shakespeare. Ricordate quel padre a cui un messaggiero annunzia la morte del figlio, e si dispera, e quando un amico gli dice: Calmati, pensa alla vendetta; risponde: lei non ha figli! È una delle cose piú sublimi che la poesia abbia prodotto, una negazione che rappresenta l'infinito d'una passione insaziabile. I due calabresi a questa situazione hanno aggiunto i figli, e l'han renduta strana, innaturale; sí che solo chi fosse dotato d'una forza poetica straordinaria potrebbe rappresentarla.
Queste sono le somiglianze. Eppure l'uno è poemetto interamente classico, l'altro interamente romantico. C'è una profonda divisione di forma che li classifica diversamente.
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