E si asside su quelle rovine, e nella calda sua immaginazione appariscono le forme delle monache, sente come un canto lontano: in questa esaltazione, rifá la storia del monastero, ricostruisce que' ruderi, fa rivivere quelle suore.
Per darvi fin d'ora un'idea dell'intonazione di questa poesia, e della tinta locale di cui è penetrata, vi leggerò le prime due ottave.
O agresti solitudini, o pinete,
O monti della Sila cosentina,
Che l'estreme reliquie possedeteDel monastero della Sambucina,
Col rumor della caccia altri le queteOmbre vostre profani e l'eco alpina:
Giovine io sono di piú mite ingegno,
Amo le muse; e a meditar qui vegno.
A meditar sui rovi, su l'ortica,
Su l'edera tortuosa, onde fasciateSono le mura della casa antica,
Che furon dalle vergini abitate;
Ove lasciar, partendo, un'aura amica,
Un raggio delle lor forme beate,
Di lor sen, di lor vesti una fragranza,
Un suono, qual di voci in lontananza.
È il poeta, nei primi momenti della ispirazione, che rappresenta le impressioni che l'hanno animato. Ch'è questa novella? È un nome solo, e poteva benissimo essere intitolata con questo nome, Eugenia. Ed Eugenia è l'ideale dell'ideale lombardo.
Mi spiego. Se voi leggete Manzoni, Tommaso Grossi, Carcano, trovate i varii casi della vita reale, da cui a poco a poco si sviluppa l'ideale che apparisce nello sfondo del racconto, l'ideale nel momento della morte, quello staccarsi dalla terra, quell'aspirazione al cielo, quella fede che trionfa del senso; e lí, nello sfondo, avete Ermengarda, Bice, Ildegonda, Angiola Maria, Ida della Torre.
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