È uno di quei primi fatti che rivelano una vocazione vera, un ingegno.
Passò dieci anni a Roma, ora allo studio, ora nelle campagne, vivendo fra contadini, contemplando le bellezze naturali, raccogliendo immagini e impressioni le quali gittava poi sulla tela. Prima fu paesista, poi pittore di quadri storici. Ed in un tempo che i pittori non facevano altro se non riprodurre Madonne, Sacre famiglie, Gesú bambini e simili argomenti religiosi, gli argomenti suoi furono quali glieli ispirava la sua vocazione, il suo patriottismo, - l'assedio di Firenze, il giuramento di Pontida, la sfida di Barletta - e parecchi altri cavallereschi, bizzarri, cavati dall'Ariosto e dal Tasso. Vedete giá qualche cosa di nuovo, quasi un doppio uomo che s'agita in lui, l'artista e il patriota.
A Roma disegnava, a Milano vendeva. A Milano era una mostra annuale e vi facevano impressione non tanto i disegni del d'Azeglio quanto gli argomenti, in mezzo a un popolo servo dell'Austria. E si dice vendesse bene i suoi quadri, non ostante l'ironia di quelli che sostenevano ciò non convenire ad un marchese. Ma egli prendeva sul serio la sua professione, aveva dimenticato il marchese per essere artista.
Lo ricordo come se ora lo vedessi, perché l'ho conosciuto molto da vicino a Torino: lungo, smilzo, svelto, tutto stecchito, asciutto, bruno. Nella vita di militare e di artista aveva contratto qualche cosa del Benvenuto Cellini, - spensierato, stravagante, piacevolone nel conversare, pieno di motti e di frizzi, con certa scioltezza di forme, con certo abbandono naturale.
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