Per giungere a questo punto Massimo d'Azeglio sforza anche la natura del fatto.
Di Ginevra fa non solo una donna ideale, platonica, pura, sentimentale, ma grande patriota, e divenne caratteristica una scena fra lei ed Ettore Fieramosca. Questi le narra della sfida, del prossimo combattimento, e Ginevra «colla mano bianca e gentile afferrò l'elsa della spada di Fieramosca, e alzando la faccia arditamente diceva: - se avessi il tuo braccio! se potessi far fischiare questa che reggo appena!... non anderesti solo, no!...» - . Ed Ettore, poco dopo, le dice:
«Le donne del tuo taglio possono far fare miracoli alle spade senza toccarle; potreste volgere il mondo sottosopra... se sapeste fare. Non parlo per te, Ginevra, ma per le donne italiane, che pur troppo non ti somigliano».
Questo linguaggio teneva il d'Azeglio nel 1833. Qui domina il sentimento dell'insolenza straniera. Ma date questa scena a Mazzini, a Guerrazzi, a Niccolini, a Berchet; si sarebbero fermati a questo punto? Non avrebbero parlato ancora della tirannide interna, contro il papa, i principi, l'imperatore? A questi affetti non era certo indifferente il d'Azeglio; ma credeva sconveniente fissare su di essi l'attenzione degl'italiani. E, continuando la scena, si fa piú manifesta la differenza fra la scuola di cui ho citato alcuni nomi e la maniera lombardo-piemontese.
Udiva quel dialogo Zoraide, una saracena che Ginevra cercava convertire ed alla quale aveva dato una Bibbia. Quello che Ettore e Ginevra non dicono, l'autore lo fa dire alla saracena, col suo naturale buon senso, con la sua ingenuitá, in modo che il risultato non sia un fremito, ma un sorriso.
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